“J’ACCUSE”
di Anna Punzo e Franco Tempra
L’annosa questione relativa al personale in
posizione di utilizzo temporaneo presso la Presidenza del Consiglio del Ministri
(P.C.M.) e presso le diverse Amministrazioni statali è stata oggetto di
molteplici e multiformi interventi di livello istituzionale “pregiato”
allo scopo di impegnare l’Esecutivo ed il Parlamento ad emanare norme per la
stabilizzazione del personale comandato o fuori ruolo.
Tutto vano!
Le iniziative esperite in tal senso, le interrogazioni parlamentari, gli
“emendamenti”, gli “ordini del giorno” e le proposte di legge dirette a
risolvere la situazione, si sono infrante dinanzi ad ostacoli, a seconda
dei casi, politici, sindacali, di opportunità, di “casta”, di cavilli
pregiudiziali, di argomentazioni risibili e strumentali.
Allo stato, risulta che vi siano stati diversi incontri tra l’amministrazione
della P.C.M. e le OO.SS.
In proposito alcune centrali sindacali hanno affermato, con enfasi, la loro
linea di sostegno alle aspirazioni della componente umana “di prestito”.
Ciò nonostante, sembra che la conclusione della “trattativa” si sia
risolta in un “bluff”, per cui il problema continua a rimanere
drammaticamente e amaramente insoluto.
In ogni caso, i Sindacati un risultato lo hanno raggiunto. Si sono ripristinate
le “conciliazioni” e gli impiegati di ruolo che hanno partecipato alle
“progressioni verticali” sono stati reinquadrati nell’area apicale.
L’Amministrazione ha assecondato gli input delle OO.SS. aggirando la
normativa afferente la mobilità concordata.
Ergo, è la solita solfa!
Ciò detto, com’è noto, l’autonomia ordinamentale, finanziaria ed organizzativa
che la legge n. 59 del 1997 conferisce alla P.C.M., consente all’Amministrazione
di procedere - in via amministrativa - all’adozione di un provvedimento di
inquadramento in ruolo del personale di prestito, rideterminando i contingenti
significati nelle tabelle organiche annesse al D.P.C.M. 23 luglio 2003 e
successive integrazioni (D.P.C.M. 17 febbraio 2010).
Pertanto, ancorché la P.C.M. sia regolata da una normativa speciale, anche per
quanto concerne la gestione del personale, l’amministrazione presidenziale non
può esimersi dal non attuare l’art. 30 del d.lgs. n. 165 del 2001, in quanto non
vi è alcuna norma che consenta alla Presidenza del Consiglio dei Ministri di
eludere l’applicazione di detto disposto legislativo.
Peraltro, è utile sottolineare e rammentare che il comma 2 dell’art. 30 del
d.lgs 165 (comma modificato dall’art. 16, c. 1, legge n. 246 del 2005)
stabilisce che: “in ogni caso sono nulli gli accordi, gli atti e le
clausole dei contratti collettivi volti ad eludere l’applicazione del principio
del previo esperimento di mobilità rispetto al reclutamento di nuovo personale”.
Ma attenzione: alle procedure di reclutamento sono assimilati i passaggi da
un’area funzionale ad una fascia giuridica superiore. E’ un principio asseverato
da una giurisprudenza tanto costante quanto inascoltata, che da tempo ha
assimilato le progressioni verticali (fra un’area e l’altra) ad un pubblico
concorso, in quanto costituisce accesso ad un nuovo posto in organico e verifica
una novazione del rapporto di lavoro (Corte costituzionale 1/1999; 218/2002;
273/2002; 274/2003; 34/2004; 205/2005; 81/2006; Consiglio di Stato del 9
novembre 2005, n. 3556 e del 9 febbraio 2010, n. 379).
In tale quadro di riferimento, è lecito sostenere che l’amministrazione della
P.C.M., di intesa con le OO.SS., nell’effettuare copiose e costose progressioni
verticali, ha perpetrato una grave violazione dell’ordinamento giuridico.
Il MEF- Ragioneria Generale dello Stato e la Corte dei conti, organi preposti al
controllo del contenimento della spesa pubblica, si limitano a prendere atto -
in modo notarile – formulando, al più, segnalazioni, osservazioni e
raccomandazioni aventi come destinatari il Parlamento, il Governo e l’ARAN,
senza segnalare e/o censurare la macroscopica violazione della normativa di cui
all’art. 30 del d.lgs 165/2001. Eppure il legislatore, con la menzionata norma,
pone l’obbligo alle amministrazioni di attuare in primis il “passaggio
diretto di personale tra amministrazioni diverse”, per contemperare il
prevalente interesse pubblico alla funzionalità dei suoi uffici, con l’esigenza
di riduzione della spesa pubblica e le legittime aspirazioni dei dipendenti
pubblici di regolarizzare la loro posizione presso la sede ove prestano la
propria attività lavorativa.
In via esemplificativa, le sezioni riunite della Corte dei conti, con le
relazioni annuali (2009 e 2010), hanno evidenziato al Parlamento che il
personale di prestito tra il 2001 ed il 2010 è aumentato del 39,5%, arrivando a
rappresentare più del 43% del personale di Palazzo Chigi, ed ancora che in 8
anni, dal 2001 al 2009, si è registrata un’astronomica quantità di progressioni
orizzontali, che hanno interessato 6.193 impiegati (per poco più di 2000
dipendenti di ruolo).
Inoltre, tra il 2001 ed il 2009, con le “progressioni verticali” sono
state beneficiate circa 325 unità, senza contare le innumerevoli “conciliazioni”
che hanno consentito ulteriori copiosi passaggi di area.
Risultato: non sempre gli impiegati che, attraverso le progressioni verticali
e/o conciliazioni, conseguono una posizione giuridica superiore sono qualificati
a svolgere i compiti propri della nuova funzione. Per cui l’Amministrazione
presidenziale è costretta (anche per i continui pensionamenti) a chiamare
personale da altre Amministrazioni per avvalersi di funzionari con
professionalità, competenza e preparazione più adeguata e rispondente ai compiti
qualificati da svolgere.
Per contro, rispetto a quanto avviene presso la PCM, nelle altre Amministrazioni
pubbliche i percorsi di carriera hanno scansioni temporali più lunghi e i posti
sono contingentati, cioè per un esiguo numero di impiegati. Pertanto, il
personale in assegnazione temporanea presso la PCM risulta penalizzato, in
quanto, da un lato non può partecipare alle selezioni presso l’amministrazione
in cui è comandato (in quanto riservate al solo personale di ruolo), dall’altro
si trova ad avere un punteggio inferiore rispetto al collega della sua stessa
amministrazione, perché il servizio e le funzioni prestate in posizione di
comando viene valutato in misura più bassa e, quindi, ininfluente ai fini della
graduatoria, subendo un pregiudizio nello sviluppo della sua carriera.
La Presidenza del consiglio si presenta in tal modo come un colosso d’argilla
perché fruisce di personale temporaneo in misura all’incirca pari al numero dei
dipendenti di ruolo. Per cui, se tutti i comandati fossero richiamati dalle
amministrazioni di appartenenza oppure si avvalessero della facoltà di rientrare
nell’amministrazione di origine, l’intera struttura presidenziale “crollerebbe”.
Non solo.
Viste le perseveranti “dimenticanze” delle OO.SS. circa le legittime istanze dei
“comandati”, questi ultimi, in occasione delle elezioni delle R.S.U., potrebbero
disertare le urne, impedendo, di fatto, il raggiungimento del quorum
necessario a renderle valide.
Eppure le predette osservazioni e riflessioni, pur con sfumature diverse, sono
già state reiteratamente espresse senza sortire alcuna indignazione.
Non ci arrendiamo.
Lo scopo è quello di dare voce ad una componente umana che da anni attende
un’adeguata soluzione alla vetusta situazione di sostanziale precarietà e
sensibilizzare le forze sane di questo Paese sul tema della legalità e del
rispetto delle regole.
Principi evidentemente estranei a chi ha il dovere di rispettarli e
il potere di farli rispettare.