Manovre tra luci e ombre
di
Marcello Clarich -
Professore ordinario di Diritto amministrativo presso la Luiss - Guido Carli di
Roma
La manovra di
Ferragosto varata con il Dl n. 138 del 13 agosto 2011 e convertita in legge lo
scorso 14 settembre sotto l’urgenza della crisi dei mercati finanziari e delle
pressioni internazionali (Banca centrale europea inclusa) ha suscitato grande
attenzione nella stampa anche internazionale perché era in gioco la credibilità
dell’intero Paese.
Ciò anche per i continui cambiamenti di linea. Essa ha infatti sollevato
problemi di metodo e di contenuti. Di metodo in quanto l’urgenza del provvedere
ha portato a confezionare un decreto legge di pessima fattura e poco meditato su
molti punti.
L’andazzo ormai è quello di considerare i decreti legge poco più “prove
d’autore”, tanto poi ci pensano il Parlamento e le lobby più svariate a
correggere gli errori più madornali.
Inoltre, com’è accaduto anche in questo caso, molte novità che andavano a
intaccare posizioni di rendita e di privilegio sono state soppresse o annacquate
cedendo alle pressioni di parte.
I giornali finanziari anglosassoni non a caso hanno parlato di fiducia tradita,
mettendo in rilievo l’inaffidabilità cronica del nostro Paese.
Tanto è stata forte la reazione negativa dei mercati che il Governo ha dovuto
presentare in tutta fretta al Senato un maxiemendamento, sul quale ha posto per
ripristinare alcune misure e aggiungerne altre (come l’aumento dell’Iva), in
modo tale da far quadrare, almeno nell’immediato, i conti.
Così, passando a considerare i contenuti, molte delle disposizioni più
significative sono venute meno, come hanno stigmatizzato quasi tutti i
commentatori. Limitando l’analisi agli argomenti che possono interessare di più
il diritto amministrativo, sul versante del riordino degli apparati è venuta
anzitutto meno la proposta di accorpare le province minori.
Tutto viene rinviato a un disegno di legge costituzionale dai tempi ed esiti
incerti. Anche la soppressione degli enti pubblici non economici con dotazione
di personale inferiore alle settanta unità è saltata.
Per non parlare poi del capitolo dei cosiddetti “costi della politica”, ridotto
ormai a tagli limitati a indennità ed emolumenti.
Mai come in questa circostanza si è registrato uno scollamento tra classe
politica e opinione pubblica, la prima pressoché insensibile alle richieste di
sacrifici e di morigeratezza provenienti dalla seconda.
Degno di nota, sempre sul versante dell’organizzazione, è l’ennesimo tentativo
di riformare i servizi pubblici locali, dopo la battuta d’arresto referendaria
che ha azzerato le maggiori aperture al mercato e alla concorrenza contenute
nelle norme precedenti.
Il decreto legge, in realtà, con una manovra forse di dubbia costituzionalità,
riproduce molte previsioni contenute nelle disposizioni legislative e
regolamentari cadute in seguito alla consultazione popolare. Esse impegnano gli
enti locali a rivedere entro un anno l’intero comparto dei servizi locali.
L’obiettivo è di liberalizzare il più possibile il settore, anche se, in realtà,
molti vincoli discendono da leggi statali vigenti che gli enti locali non
possono modificare.
Un secondo obiettivo è quello di favorire il metodo della scelta del gestore con
gara, limitando al minimo gli affidamenti diretti in-house, cioè a società
interamente partecipate da enti pubblici, che comunque sono assoggettate a
regole pubblicistiche in tema di gare pubbliche per l’acquisto di beni e servizi
e di assunzione del personale.
Sul versante delle liberalizzazioni e privatizzazioni a livello nazionale non ci
sono novità immediate da registrare.
È caduta infatti la proposta di consentire agli esercizi commerciali in tutte le
aree del Paese (anche quelle non a vocazione turistica) di decidere in piena
libertà i giorni e gli orari di apertura. È venuta anche meno la proposta che
consentiva alle parafarmacie, previo pagamento di una somma una tantum
consistente, di ampliare la gamma dei prodotti offerti, togliendo così molte
esclusive alle farmacie.
Resta soltanto l’impegno dello Stato, regioni ed enti locali a rivedere i propri
ordinamenti entro quattro mesi in base al principio secondo cui l’iniziativa e
l’attività economica privata sono libere ed “è permesso tutto ciò che non è
espressamente vietato dalla legge”. In caso di ritardo, il decreto legge non
abroga più in modo automatico le disposizioni normative vigenti incompatibili
con i principi di libertà e concorrenza.
Saranno uno o più regolamenti governativi da adottare entro dicembre (termine
impossibile da rispettare) a individuare le disposizioni abrogate.
Anche le libere professioni vengono toccate di striscio dalla manovra che
contiene soltanto l’annuncio che esse dovranno essere riformate entro 12 mesi
con l’indicazione dei principi (peraltro non vincolanti) ai quali il legislatore
dovrà attenersi.
Tra i principi spicca quello di un regime delle tariffe che, per ricorrere a un
ossimoro, è libero e vincolato: libero perché è prevista la negoziazione scritta
dei compensi; vincolato perché restano le tariffe approvate in sede ministeriale
come parametro di riferimento. Infine, la manovra introduce altri ritocchi alla
segnalazione certificata d’inizio di attività (Scia) disciplinata dall’art. 19
della legge n. 241/1990.
Quello più di rilievo riguarda la tutela processuale del terzo che vuole opporsi
all’avvio dell’attività. Gli si riconosce il potere di sollecitare
l’amministrazione a svolgere le verifiche necessarie sulla conformità della Scia
alla legge e, in caso di inerzia, esperire l’azione contro il silenzio.
Al Senato è stato aggiunto l’avverbio “esclusivamente”, quasi per smentire
l’orientamento più recente del Consiglio di Stato che ha immaginato un sistema
assai diverso di tutela (Ad. plen. n. 15/2011).
In definitiva, dal punto di vista del diritto amministrativo, la manovra di
Ferragosto non è sconvolgente.
E forse si è perduta un’occasione probabilmente unica, come molti hanno
osservato, per introdurre le riforme strutturali delle quali il Paese ha tanto
bisogno.
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